Vedervi così numerosi mi ha sorpreso e rallegrato molto. La pandemia ci ha disabituati a queste invasioni pacifiche! Grazie di essere venuti, la vostra presenza ci testimonia una stima e un’amicizia che sono per noi molto preziose.
In particolare ringrazio tutti coloro che con le loro risorse economiche e con il loro lavoro hanno reso possibile che questa casa sia oggi così splendente e possa dare il suo pieno contributo allo scopo per cui la vogliamo usare: la formazione delle novizie e delle suore che qui si preparano alla loro futura missione, in un cammino in cui approfondiscono la conoscenza di se stesse e di Dio, guidate in una esigente proposta di condivisione della vita, di preghiera, di lavoro e di studio.
Per voi in particolare offro questa santa messa.
Quando nasce un bambino, si dice che “è venuto al mondo”. Uno può anche parlare della propria nascita in prima persona, dicendo: “Io venni al mondo nell’anno tale…” oppure: “Io sono venuto al mondo in una famiglia ricca…”. Si tratta però di un semplice sinonimo di nascere. Anche Gesù si esprimeva in prima persona, ma usava queste parole in un modo del tutto particolare, che lasciava intuire un significato diverso da quello comune.
L’evangelista Marco riferisce di un’occasione in cui i discepoli trovano Gesù in preghiera, all’alba, in un posto vicino a Cafarnao, e lo pregano di tornare con loro al villaggio. Gli dicono che al villaggio la gente lo cerca, colpita dai miracoli che aveva compiuto il giorno prima. Ma Gesù li invita piuttosto ad andare con lui. «Andiamocene altrove, nei villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!» (Mc 1, 38). Gesù non si riferisce al suo recente trasferimento da Nazaret a Cafarnao. Cosa significano dunque le ultime parole? Luca ci aiuta a capire, riportando la stessa frase in modo leggermente diverso: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato» (Lc 4, 34). Venire non è per Gesù semplice sinonimo di nascere. Usando questa parole Gesù fa riferimento alla sua missione, allude a quel Padre che mi ha mandato che tante volte compare sulle sue labbra nel vangelo di Giovanni (Gv 6, 44; 8, 16; 14, 24). Fa riferimento a una misteriosa uscita dalla sfera del divino per prendere carne. Dio mandò il suo Figlio, nato da donna (Gal 4, 4), dirà san Paolo sintetizzando i sue elementi in un’unica frase.
Facciamo un salto alla fine della vita di Cristo. Ritroviamo lo stesso modo di parlare: Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità […]» (Gv 18, 37). Nel modo in cui Gesù afferma: «[Io] sono venuto nel mondo» (Gv18, 37) si scorge un’intenzione, una libera decisione di questo Io. E ciò non può essere attribuito a nessun bambino, protagonista di una normale nascita. Questo Io, che parla con la voce dell’uomo Gesù, esiste e agisce ben prima della sua nascita dal grembo di una donna.
Per questo, il giorno drammatico che segue la moltiplicazione dei pani, Gesù può dire davanti ai farisei e al popolo nella sinagoga di Cafarnao: «In verità, in verità io vi dico: non è Mosè che vi ha dato il pane dal cielo, ma è il Padre mio che vi dà il pane dal cielo, quello vero. Infatti il pane di Dio è Colui che discende dal cielo e dà la vita al mondo» (Gv 6, 32-33). Quando dice: «[Io] sono venuto nel mondo» (Gv18, 37), Gesù fa riferimento a questa sua misteriosa discesa. «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo» (Gv 6, 61).
Di fronte alla proposta di nutrirsi di questo pane vivo, i farisei reagiscono con forza: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6, 60). E la replica di Gesù è altrettanto forte ed esplicita: «Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima?» (Gv 6, 61-62). Ecco di nuovo questo «prima» (Gv 6, 62). È il prima della vita di Dio, il prima del mistero della Trinità da cui ogni cosa nasce, per cui noi stessi esistiamo. È il prima in cui è stata presa la decisione di creare ogni cosa e di offrire agli uomini una via di salvezza.
L’eucaristia, di cui Gesù parla nella sinagoga di Cafarnao, è dunque legata a questa sua venuta nel mondo, al diventare uomo del Verbo che era presso Dio e […] era Dio (Gv 1, 1) e ha posto la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1, 14). Anche l’eucaristia è una discesa di Dio sulla terra. Essa prolunga la prima, la fa riaccadere, la rinnova ogni giorno e prosegue così quella presenza terrena di Cristo come uomo tra gli uomini che riempiva di stupore coloro che lo incontravano. È questo il mistero che contempliamo oggi: la decisione di Dio di abitare con noi. Un mistero di premurosa vicinanza, per cui Dio fa casa con noi.
Lo stupore che proviamo di fronte a questa rivelazione ci suggerisce anche una parola pertinente all’occasione che ci ha radunati qui oggi.
Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? si chiede il re Salomone dopo aver costruito il tempio a Gerusalemme. Ecco, i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! (1Re 8, 27). Potrebbe essere la domanda di una delle nostre Missionarie. Guardando a questa casa, finalmente ristrutturata e lucente al sole di questa tarda primavera romana, qualcuna di loro potrebbe fermarsi un istante e chiedersi: “Ma è proprio possibile che io incontri Dio qui, tra queste mura, nello stretto di queste salette e uffici già fin troppo gremiti di persone? Proprio qui, nello stretto di questi pochi rapporti, in questo punto concreto e così limitato?”. Potrebbe essere anche la domanda di un marito o di una moglie, se si fermassero a riflettere sulla loro casa. Perché ogni casa, ogni compagnia sincera, è questa strettoia per cui Dio chiede di passare.
La risposta sgorga sicura dalla nostra fede e dalla nostra esperienza: sì, è possibile! Di più: questo luogo esiste per rendere questo incontro possibile. Per questo, ogni volta che ci raduniamo per l’incontro della casa, cantiamo le parole dell’inno ambrosiano Christe cunctorum e abbiamo molte volte meditato sulle strofe che cominciano con la parola hic, qui:
o stupore che p
«Qui le sante acque sciolgono le colpe
dei peccatori e ne annullano le pene […].
Qui è data salute agli infermi, aiuto ai deboli,
la vista ai ciechi: qui dalla colpa, o Cristo, tu ci liberi […].
Qui è annullata la presa feroce del demonio:
il mostro caparbio ha paura […].
Questo è il luogo realmente chiamato corte
del Re celeste, porta splendente del cielo […]».
Colui che i cieli non possono contenere si è chiuso nel ventre di una donna e si chiude di nuovo ogni giorno per noi in un pezzo di pane e in un sorso di vino. Si fa contenere dalla materia che sostiene la nostra vita, si chiude in uno spazio e in un tempo determinati, si lega a volti ben definiti, per venirci incontro, per rimanere con noi.
La grande solennità con cui la Chiesa celebra la festa di oggi, adorando il Corpo e il Sangue di Cristo, ci segnala che questo è l’evento centrale della nostra vita e della vita del mondo: la venuta di Dio fra noi. E noi rispondiamo alla Chiesa, nostra madre, che vogliamo rivivere consapevolmente questa venuta, tutte le volte che si ripete. Vogliamo accogliere Colui che viene nel mondo (Gv 11, 27), pieni di coscienza e di partecipazione al miracolo che riaccade sull’altare, ogniqualvolta vengono pronunciate dal sacerdote le parole di Gesù: «Prendete, questo è il mio corpo» (Mc 14, 22) e «Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti» (Mc 14, 24). E vogliamo accogliere Colui che viene nel nostro mondo, nel tempo e nello spazio che abitiamo, ogniqualvolta il fratello o la sorella con cui viviamo diventano per grazia un segno della presenza salvifica di Dio e il loro limite diventa realmente «porta splendente del cielo».